Poesia lineare
Il PCI ai giovani!! | Apologia - teoria pratica | La strada delle puttane | Preghiera su commissione |
Richiesta di lavoro | Versi del testamento | Versi sottili come righe di pioggia
Il PCI ai giovani!!
(Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una «Apologia»)*
È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete faccie di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo-borghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.
«Popolo» e «Corriere della Sera», «Newsweek» e «Monde»
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
alla vecchia lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente l'idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa,
a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il Movimento Studentesco
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono,
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici:
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
la violenza conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine, anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.
Sì, i vostri slogans vertono sempre
la presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia,
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.
E allora:
«Corriere della Sera» e «Popolo», «Newsweek» e «Monde»
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
E un’osservazione banale;
e ricattatoria. Ma soprattutto vana:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 195O e più indietro.
Un’idea antica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
e bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo
a Bob Kennedy.
I Maestri si fanno occupando le fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, figli.
Ecco,
gli Americani, vostri adorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un linguaggio rivoluzionario «nuovo»!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del «Times» e del «Tempo»).
Lo ignorate andando, col moralismo delle profonde provincie,
«più a sinistra». Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante eretica
ma sulla base del più basso gergo
dei sociologi senza ideologia (o dei babbi burocrati).
Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme,
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici,
e il rinnovamento di un organismo statale.
Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebbriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
(e ubriacati dall’interesse dell’opinione pubblica
borghese con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
Andate ad occupare gli uffici
del Comitato Centrale! Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per l’autorità di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri stupidi padri)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decida a distruggere, intanto,
ciò che di borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente...
Ad ogni modo: il PCI ai giovani!!
......................
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho preso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso!
Mi son fermato appena in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità...
Ma son giunto sull’orlo della vergogna...
(Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?)
*Prima pubblicazione in "Nuovi Argomenti" n.10, aprile - giugno 1968
(Empirismo eretico, 1972)
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Apologia
Che cosa sono i « brutti versi» (come presumibilmente questi, de «Il PCI ai giovani!! »)? È fin troppo semplice: i brutti versi sono quelli che non bastano da soli a esprimere ciò che l’autore vuole esprimere: cioè in essi le significazioni sono alterate dalle consignificazioni, e insieme le consignificazioni ottenebrano le significazioni.
Si sa poi che la poesia attinge i segni da campi semantici diversi, facendoli combaciare, spesso arbitrariamente; fa quindi di ogni segno una specie di stratificazione di cui ogni strato corrisponde a un’accezione del segno tratta da un campo semantico diverso, ma provvisoriamente combaciante (per via di un démone) con gli altri.
Allora: i brutti versi sono sì, comprensibili: ma per comprenderli occorre della buona volontà.
Dubito della buona volontà di molti dei lettori di questi brutti versi: anche perché, in molti casi, dovrò prevedere per essi, per così dire, «una cattiva volontà in buona fede». Cioè una passione politica altrettanto valida della mia, che ha speranze e amarezze, idoli e odii come la mia.
Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti «sdoppiati» cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una «captatio malevolentiae»: le virgolette sono perciò quelle della provocazione. Spero che la cattiva volontà del mio buon lettore «accetti» la provocazione, dato che si tratta di una provocazione a livello simpatetico. (Quelle che non si accettano sono le provocazioni dei fascisti e della polizia.) Tra virgolette sono anche per esempio i due passi riguardanti vecchi operai che vanno la sera in cellula a imparare il russo, e l’evoluzione del vecchio, buon acciaccato PCI: a parte il fatto che oggettivamente tale figura di operaio e di PCI corrisponde anche alla «realtà», qui, in questa mia poesia sono figure retoriche e paradossali: ancora provocatorie.
L’unico brano non provocatorio, anche se detto in tono fatuo, e quello parentetico finale. Qui sì pongo, sia pure attraverso lo schermo ironico e amaro (non potevo convertire di colpo il démone che mi ha frequentato, subito dopo la battaglia di Valle Giulia - e insisto sulla cronologia anche per i non filologi), un problema «vero»: nel futuro si colloca un dilemma: guerra civile o rivoluzione?
Non posso fare come tanti miei colleghi, che fingono di confondere le due cose (o le confondono veramente!), e presi dalla «psicosi studentesca», si son buttati a corpo morto dalla parte degli studenti (adulandoli, e ricavandone disprezzo); non posso nemmeno affermare che ogni possibilità rivoluzionaria sia esausta, e che quindi bisogna optare (come in un diverso destino storico accade in America o nella Germania di Bonn) per la «guerra civile»: infatti la guerra civile la borghesia la combatte contra sé stessa, come ho più volte ripetuto. Né, infine, sono così cinico (come i francesi) da pensare che si potrebbe fare la rivoluzione «approfittando» della guerra civile scatenata dagli studenti - per poi metterli da parte, o magari farli fuori.
È da questo stato d’animo che sono nati questi brutti versi, la cui dominante è comunque la provocazione (che essi esprimono indiscriminatamente, a causa della loro bruttezza). Ma, e questo è il punto, perché sono stato così provocatorio con gli studenti (tanto che qualche untuoso giornale padronale vi potrebbe speculare)?
La ragione è questa: fino alla mia generazione compresa, i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un «oggetto», un mondo «separato» (separato da loro, perché, naturalmente, parlo dei giovani esclusi: esclusi per un trauma: e prendiamo come trauma tipico quello di Lenin diciannovenne che ha visto il fratello impiccato dalle forze dell’ordine). Potevamo guardare la borghesia, così, oggettivamente, dal di fuori (anche se eravamo orribilmente implicati con essa, storia, scuola, chiesa, angoscia): il modo per guardare oggettivamente la borghesia ci era offerto, secondo uno schema tipico, dallo «sguardo» posato su di essa da ciò che non era borghese: operai o contadini (di quello che si sarebbe poi chiamato Terzo Mondo). Perciò noi, giovani intellettuali di venti o trenta anni fa (e, per previlegio di classe, studenti) potevamo essere antiborghesi anche al di fuori della borghesia: attraverso l'ottica offertaci dalle altre classi sociali (rivoluzionarie, o rivoltose che fossero).
Siamo cresciuti, dunque, con l'idea della rivoluzione in testa: della rivoluzione operaia-contadina (Russia ’17, Cina, Cuba, Algeria, Vietnam). Di conseguenza abbiamo fatto, dell’odio traumatico per la borghesia, anche una giusta prospettiva in cui integrare la nostra azione: in un futuro non evasivo (almeno parzialmente, perché tutti siamo un po’ sentimentali).
Per un giovane di oggi la cosa si pone diversamente: per lui è molto più difficile guardare la borghesia oggettivamente attraverso lo sguardo di un’altra classe sociale. Perché la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da una parte, e i contadini ex coloniali, dall’altra. Insomma, attraverso il neocapitalismo, la borghesia sta diventando la condizione umana. Chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori. È finita. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che vede degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese.
Ora, io, personalmente (la mia privata esclusione, ben piú atroce di quella che tocca mettiamo a un negro o a un ebreo, da ragazzo) e pubblicamente (il fascismo e la guerra, con cui ho aperto gli occhi alla vita: quante impiccagioni, quante uncinazioni!) sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico. Non posso sperare nulla né da essa, in quanto totalità, né da essa in quanto creatrice di anticorpi contro se stessa (come succede nelle entropie. Gli anticorpi che nascono nell’entropia americana hanno vita e ragione di essere solo perché in America ci sono i negri: che hanno per un giovane americano la funzione che hanno avuto per noi ragazzi gli operai e i contadini poveri).
Data questa mia sfiducia «totale» nella borghesia, io resisto, dunque, all’idea della guerra civile, che, magari attraverso l’esplosione studentesca, la borghesia combatterebbe contro se stessa. Già i giovani di questa generazione, sono, direi fisicamente, molto più borghesi di noi. Dunque? Non ho diritto di provocarli? In che altro modo mettermi altrimenti in rapporto con loro, se non così? Il démone che mi ha tentato è un démone, si sa, pieno di vizi: stavolta ha avuto anche il vizio dell’impazienza e del disamore per quella vecchia opera artigiana che è l’arte; ha fatto un solo rozzo fascio di tutti i campi semantici, rimpiangendo addirittura di non essere anche pragmatico, cioè di abbracciare anche i campi semantici che sono sede delle comunicazioni non linguistiche: presenza fisica e azione... Per concludere, dunque, i giovani studenti di oggi, appartengono a una «totalità» (i «campi semantici» su cui essi, sia attraverso la comunicazione linguistica che non-linguistica, si esprimono), sono strettamente unificati e recintati: essi non sono dunque in grado, credo, di capire da soli che, quando si definiscono «piccolo-borghesi» nelle loro autocritiche, commettono un errore elementare quanto inconsapevole: infatti il piccolo-borghese di oggi non ha più nonni contadini: ma bisnonni e forse trisavoli; non ha vissuto un’esperienza antiborghese rivoluzionaria (operaia) pragmaticamente (e da ciò gli inani brancolamenti alla ricerca dei compagni operai); ha esperimentato, invece, il primo tipo di qualità di vita neocapitalistica, coi problemi dell'industrializzazione totale. Il piccolo-borghese di oggi, dunque, non è più quello che viene definito nei classici del marxismo, mettiamo in Lenin. (Come, per esempio, la Cina attuale non è più la Cina di Lenin: e dunque citare l’esempio della «Cina» dal libretto sull’imperialismo di Lenin, sarebbe una follia.) Inoltre i giovani di oggi (che si sbrighino poi ad abbandonare l’orrenda denominazione classista di studenti, e a diventare dei giovani intellettuali) non si rendono conto di quanto sia repellente un piccolo-borghese di oggi: e che a un tale modello si stanno conformando sia gli operai (malgrado il persistente ottimismo del canone comunista) sia i contadini poveri (malgrado la loro mitizzazione operata dagli intellettuali marcusiani e fanoniani, me compreso, ma ante litteram).
A tale coscienza manichea del male borghese gli studenti possono giungere dunque (per ricapitolare):
a) rianalizzando - al di fuori così della sociologia come dei classici del marxismo - i piccoli borghesi che essi sono (che noi siamo) oggi.
b) abbandonando la propria autodefinizione ontologica e tautologica di «studenti» e accettando di essere semplicemente degli «intellettuali».
c} operando l’ultima scelta ancora possibile - alla vigilia della identificazione della storia borghese con la storia umana - in favore di ciò che non è borghese (cosa che essi possono fare ormai solo sostituendo la forza della ragione alle ragioni traumatiche personali e pubbliche cui accennavo: operazione, questa, estremamente difficile, che implica un’autoanalisi «geniale» di se stessi, al di fuori di ogni convenzione). |
(Empirismo eretico, 1972)
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La strada delle puttane
Un Dio Ragazzo, che conosce il Ma-mul*, cantando
sui gioghi vicini alle nuvole basse e calde
Esso ti troverà in un luogo dove si radunano
i clienti delle puttane sopravvissute ai padroni
radi fuochi e nuvole basse ma lontane nell’orizzonte
cosparso di luci domestiche
anche le puttane in quel momento stanno quiete e ferme
come meditando o chissà per quale atavica malinconia
accanto a una luce accesa tra la carta da parato rossa
e il letto disfatto che biancheggia in quell’interno
alle cui soglie arriva il miserabile buio
I clienti parlano piano, e se qualcuno ride, o grida,
tutti lo guardano, come assorti al canto dei grilli
che gremiscono il vicino orizzonte al di là della periferia
chissà in quale notte del 1962 o ’63: e chi canta a Dio
la sua canzone paterna, nata nel cuore del Ma-mul
sugli altopiani perduti sopra le foreste
dove non passano strade, fa giungere fin qui
un segno del cosmo: il Dio Ragazzo venuto dalla baracca
si stacca dai compagni, non è nulla, ha solo dei ricci.
Ma nei millenni - prima della morte –
ciò segna una data nel corso dell’essere
anche se nessuno la festeggia, o se ne accorge.
Perché un Dio Ragazzo ti può incontrare
per le strade del cosmo che passano tra le baracche
di un villaggio di puttane, sotto muraglioni antichi?
È semplice: egli viene per farti da madre.
*Tradizione sacra orale della popolazione indiana dei Kota. Ma potrebbe essere qualsiasi altra tradizione sacra.
(Trasumanar e organizzar, 1971)
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Preghiera su commissione*
Ti scrive un figlio che frequenta
la millesima classe delle Elementari
Caro Dio,
è venuto un certo Signor Homais* a trovarci
dicendo di essere Te:
gli abbiamo creduto:
ma tra noi c’era un infelice
che non faceva altro che masturbarsi,
notte e giorno; anche esibendosi
davanti a fanti e infanti; ebbene...
Il Signor Homais, caro Dio, Ti riproduceva punto per punto:
aveva un bel vestito di lana scura, col panciotto
una camicia di seta e una cravatta blu;
veniva da Lione o da Colonia, non ricordo bene
E ci parlava sempre del domani
Ma tra noi c’era quello scemo che diceva che invece Tu
avevi nome Axel...
Tutto questo al Tempo dei Tempi
Caro Dio,
liberaci dal pensiero del domani.
È del Domani che Tu ci hai parlato attraverso Ms. Homais.
Ma noi ora vogliamo vivere come lo scemo degenerato,
che seguiva il suo Axel
che era anche il Diavolo: era troppo bello per essere solo Te.
Viveva di rendita ma non era previdente.
Era povero ma non era risparmiatore.
Era puro come un angelo ma non era perbene.
Era infelice e sfruttato, ma non aveva speranza.
Caro Dio,
l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani;
non solo, ma senza il domani, la coscienza non avrebbe giustificazioni.
Caro Dio,
facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi.
* La commissione e di P. Drutmar Cremer per una casa editrice cattolica tedesca.
Cfr. Il saggio "Elsa Morante" di Enzo Siciliano in Autobiografia letteraria, Garzanti, 1970
(Trasumanar e organizzar, 1971)
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Richiesta di lavoro
Poesia su ordinazione è ordigno.
Il costruttore di ordigni può produrne molti
(nient’altro procurandosi che stanchezza per il lavoro manuale).
L’oggetto può essere, talvolta, ironico:
l’ordigno lo è sempre.
Sono passati i tempi in cui, vorace economizzatore,
spendevo tutto, investendo i miei soldi (molti,
perché erano il mio seme: e io ero sempre in erezione)
nell’acquisto di aree di bassissimo valore
che sarebbero state valorizzate da lì a due tre secoli.
Ero tolemaico (essendo un ragazzo)
e contavo l’eternità per l’appunto, in secoli.
Consideravo la terra il centro del mondo;
la poesia il centro della terra.
Tutto ciò era bello e logico.
Del resto, che ragioni avevo di non credere
che tutti gli uomini non fossero come me?
Poi, invece, si sono rivelati tutti di me molto migliori;
e io son risultato essere, piuttosto, uomo di razza inferiore.
Ricambiai l’apprezzamento
e capii che non volevo più scrivere poesie. Ora, però,
ora che la vocazione è vacante
- ma non la vita, non la vita -
ora che l’ispirazione, se viene, versi non ne produce –
vi prego, sappiate che son qui pronto
a fornire poesie su ordinazione: ordigni.*
(Trasumanar e organizzar, 1971)
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Versi del testamento
La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’invemo; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
- e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d’immondizia contro i pa1azzi lontani,
essi sono molti - non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia traccie, o meglio, lascia una sola traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo.
È il mondo che così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;
l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque
la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l’andarsene è fuggire - e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.
Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente; allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più soddisfatto,
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere,
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
(Trasumanar e organizzar, 1971)
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Versi sottili come righe di pioggia
Bisogna condannare
severamente chi
creda nei buoni sentimenti
e nell’innocenza.
Bisogna condannare
altrettanto severamente chi
ami il sottoproletariato
privo di coscienza di classe.
Bisogna condannare
con la massima severità
chi ascolti in sé e esprima
i sentimenti oscuri e scandalosi.
Queste parole di condanna
hanno cominciato a risuonare
nel cuore degli Anni Cinquanta
e hanno continuato fino a oggi.
Frattanto l’innocenza,
che effettivamente c’era,
ha cominciato a perdersi
tra corruzioni, abiure e nevrosi.
Frattanto il sottoproletariato,
che effettivamente esisteva,
ha finito col diventare
una riserva della piccola borghesia.
Frattanto i sentimenti
ch’erano per loro natura oscuri
sono grati investiti
nel rimpianto delle occasioni perdute.
Naturalmente, chi condannava
non si è accorto di tutto ciò:
egli continua a ridere dell’innocenza,
a disinteressarsi del sottoproletariato
e a dichiarare i sentimenti reazionari.
Continua a andare da casa
all’ufficio, dall’ufficio a casa,
oppure a insegnare letteratura:
è felice del progressismo
che gli fa sembrare sacrosanto
il dover insegnare ai domestici
l’alfabeto delle scuole borghesi.
È felice del laicismo
per cui è più che naturale
che i poveri abbiano casa
macchina e tutto il resto.
È felice della razionalità
che gli fa praticare un antifascismo
gratificante ed eletto,
e soprattutto molto popolare.
Che tutto questo sia banale
non gli passa neanche per la testa:
infatti, che sia cosí o che non sia cosí,
a lui non viene in tasca niente.
Parla, qui, un misero e impotente Socrate
che sa pensare non filosofare,
il quale ha tuttavia l’orgoglio
non solo d’essere intenditore
(il piú esposto e negletto)
dei cambiamenti storici, ma anche
di esserne direttamente
e drammaticamente interessato.
Gennaio 1974
(in Poesia degli anni settanta, a cura di A. Porta, 1979)
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