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Poesia lineare
da Che Figurato muore  |   da Stracci Shakespeariani  |   due versioni dal greco  |   istruzioni dalla regia  |  
sette esempi di capitalismo  |   “siempre que te pregunto”   

da Che Figurato muore

etimo è sfingefenice, sdoppia in uno
lo zucchero nervoso del raduno, la falce
di lievito e di sabbia, lo sterro dell’invito:
forse brughiera, forse tango,
ma nel ventaglio liquido di uccide

*

secando righe oblique rade,
il contiguo rivela il genitivo,
l’incesto il decidere insieme:
se insegue ha isoscele memoria,
se si precede (prima del prima)
ha compatibile il bianco

*

volta che il senzaSenza
ha evento nel sogno della voce
latte immaturo della reticenza
avvelena l’essere detto

*

ossimoro è calunnia
ur è stagione

sbianca nel questo
la ferita esclusa

*

soffia sul vento che misura l’ago
il sempre azzurro del travestimento

orma del senza nome
sorprende il quando

                                                                     (All’insegna del pesce d’oro, 1986)

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Stracci Shakespeariani

VII

se, quanto al genere, la morte fosse diversa da quella che è, ti
sentiresti più tranquilla nel guidarmi lungo il sentiero dove i tra­-
vestimenti risolvono i loro antichi dubbi? Adesso che vai dicen-
­do che uomo vuol dire “non ho” e donna “non devo”, vuoi che
barattiamo sottigliezze e prendiamo a inseguirci l’un l’altra per
mutare il corso delle nostre mire? A nessuno, meglio che a noi,
si addice la jouissance: chi del resto potrebbe accigliarsi davanti
a una bravura che fa di un dono un oggetto di scherno, una timi­-
da nota del destino, una trovata lenta e rattrappita. Quando
bianca e dilavata routine corromperà il rischio in cui avrei dovu-
­to guardare come in un cannocchiale, e quando racconti essen-
­ziali e contenziosi stravolgeranno il loro testo storpiato, questa
condizione disagiata cesserà di friggere, senza per altro piegare la
testa

XII

preparandosi a morire le parole, e ritraendosi la fiducia nel
suono dai nastri dell’ostentazione, i riti esplodono a doppia
distanza: le tabelle di marcia tradiscono voci di controlli incer­-
ti, di stravaganze, di claudicanti scioglimenti. Bruciano i presa-
­gi per cui maturano i nostri destini: mio signore del gioco e del
commercio (e degli spettacoli di burattini), nel regalo che mi
porti il disdegno si distingue dal travestimento. Connaturati, un
domani, alle scintille di sotterfugi annullati, i cammini sono
tutti fatti di carne: sicché non accade che qualcuno possa mai
sperare di raggiungere (o trascurare) la propria voglia d’ingan­-
nare. Rincretiniti dal mito ci tratterremo anche noi dal linciare
cani randagi e altri non-giudicar-di-me

                                                                     (Stracci Shakespeariani, 1996)

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due versioni dal greco 

per avanguardia storica s’intende lo svincolo,
a posteriori, delle clausole assoggettanti: qualche
aritmia, ma da non farci caso, qualche interiezione
ma non dargli peso, e qualche generica calunnia:
una virtù insegnata una volta per tutte da Omero
(che occupa uno scranno d’eccezione perfino
tra i più saggi) ai prossimi al ponte soldati
di guardia: se saranno tornati  con lo scudo
avranno il premio che avrebbero avuto qualora
non fossero tornati a causa dei dioscuri col dente
avvelenato dai cui immortali cavalli si vocifera
che Zeus volesse farli calpestare (o da un kuros
achemenide e spia che li avesse vilmente fregati)

per carogna storica s’intende colui che, battuto
il paese casa per casa, e stalla per stalla, fingendo
di disprezzare quel che il padrone ha di più caro,
lo sottrae alla sua sfera di influenza, e non fugge,
però, dopo essere stato scoperto. E anzi reclama
indulgenza et comprensione nel nome di una virtù
sapientissima insegnata ai vicinissimi al ponte
soldati di sventura et affini da Omero (poeta sovrano)
che con la spada (sword) in mano ammolla le porte
più  dure (hard); il resto è silenzio, oppure il berciare
di un orso gravido di vino e tormentato dal fuoco 
di Sant’Antonio: “io, quella lì, lo so benissimo,
che, col marito al fronte, sconvolgeva le regole
sociali, e lo urlo ogni sabato sera, da in fondo
alle scale, dove presto verrà gente a picchiarmi”

                                                                     (Cefalonia, 2005)

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istruzioni dalla regia

vai col nudo maschile frontale, con le piattole amare
dell’ombra che non fai, con la pece indiretta del fastidio
che non dai, vai con gli otto di baionette, o con le otto
in una bomba e cammina fino al mercato dei dissapori.
Vai anche con l’amorosa morfina delle parole importate
inutilmente da gerghi altrui, con la cera delle occasioni
perdute prima che fossero annunciate (contengono
un lapsus, o una svista, e la svista una rima, o una sete
di rima). Vai quindi, assai lentamente, verso il giocattolo
definitivo e procedi lungo le illacrimate sepolture degli
amanti di Circe, biascicando con Steve Reeves in Ulisse
contro Maciste: “Guarda, c’è anche Flebas il Fenicio”.
Del tedio, e del rimedio, e della mixis rituale di cui
si sa poco e niente, si sa che non spariscono davanti
a risposte asimmetriche, ai vaccini stagionali, ai valori 
sociali acquisiti stando a galla tra quelli che tirano
mattina, chi con la giacca su misura, chi con il dubbio
che sia finta la pelliccia costata un occhio della testa

                                                                     (Cefalonia, 2005)


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sette esempi di capitalismo

uno che in California se dice “pietà di me” lo prendono
per un bastian contrario, uno che cerca di farsi azzannare

due che, azzannati da uno sgomento, ne spremono un
tatuaggio, un’imprecazione striminzita, di mezza stagione 

tre che marciano con passo d’oca al ritmo di Lili Marlene
per credersi vittime fottute di una guerra di cui ignorano

le cause: quale sarà la sottana che ha fatto più battaglie
di tutta una marina americana? Confesserà, di non essere

né il primo né il secondo zero, e neppure il sette di quadri?
E’ un bullo assoluto, un certo Rana, che scende da Tivoli

a Roma senza un incarico preciso, curioso di sé, dei freni
della Cotral, e del dormiente (con in grembo Il mio libro,

e le mani diablément occupate). Se ne sussiste memoria
è per causa di un'altra sequenza: Victor Mature tra i Filistei

che semina morte con una mascella d'asino. Coi Filistei,
finisce sempre uno contro tutti: non un esserci nel senso
 
di un ascolto precario, ma giubilante, della sostanza obliqua
dell’enunciato, ma un pregnante rimescolio dei suoi aspetti,

uno starci, nel senso iterativo di un sotto che si apre, che
s’inarca, di un dentro in cammino, istigato dal proprio

accoglimento. Quattro che ai punti cardinali rispondono
con significanti di scherno, cinque che hanno pensato

di sapere e adesso se ne lavano le mani; sei con l’accento
sull`antipenultima, che messi alle strette ricorrono a dosi

massiccie di turismo; sette, alla fine, men rei di nostra terra,
risucchiati da effetti speciali, da incubi con la  erre moscia 
                                          

                                                                     (Uscita senza strada ovvero come sbrinare una bandiera Rossa, 2000)

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“siempre que te pregunto” 

                                                      Siempre que te pregunto
                                                                    que cuando,como y donde
                                                                     tu siempre me respondes

                                                                     Quizas, Quizas, Quizas

                                                                     Osvaldo Farrés   
                                                         

aggiungi che non si tratta di una madre Russia
e neppure di un parco Michelotti* (dove garrivano
bandiere rosse) e che partito vuol dire diviso,
suddiviso, e divisato in paraviso. Se significa
regesto domestico delle varianti, e corpo sfoderato
in attesa di sedizione, la sua lievitazione si converte
in prolessi strategica, in lunga conservazione

ma scappare, non scappa niente: anche Giuseppe
D'Arimatea scavalca con lo sguardo il Cristo
deposto e punta con libidine impietosa su di una
Maddalena seminuda. Il corpo è da tempo un bene
in sé che si assottiglia fino a diventare anima,
o a consumarsi nel brodo‑calunnia di un'epifania

non è a pentirsi di una astuzia ripetuta, e delle
sue domabili proposte, che si finisce nella banda
della dismisura. Ma è per la luce ingerita con il
frutto, per il volo acerbo delle farfalle musicali
che si attenua la mesta baldoria delle formule
indiziarie, dell'ascolto incredulo, restio a darsi
da fare, come a farsi sverginare da quelli che
la sanno lunga e però non la sanno raccontare

corre voce che il denaro venduto e ricomprato
come un panno o una fesa di vitello abbia il senso
di un cartello con la scritta “qui c’è da lavorare”.
Anche a fare gli immortali ci si smena, magari
non in salute, ma certo in materia di sapere: è
la pluralità della lusinga che decide il guadagno
insieme all'inquieta repulsione dei suoi valzer,
dei suoi lamenti untuosi come cantine di guerra

come arbitrarti, dunque, sussulto notturno,
e come, dalla batosta dell'anno, scorporarti?
Truccando l'onere lustrale di una fissazione dopo 
l'altra? o riscuotendo profezie che sanno di coltellate,
di sfregio, di guarda se sbatte disordine d'amore
nella sua stagionale disdetta? E poi, come levarsi
tanto di cappello, quel tanto che basta, che tocca,
che dura (e non tura), quel tanto che disincanta?
di pirati così non ce n'è più che sanno come, dove
e quando termina il milagro e incomincia il business,
o nuova cura conduce all'impostura di una vita
incline all’ipoteca, all’isteria di una legge coltivata
come un patrimonio e mai veramente sperperata

                                                                     (Cefalonia, 2005)

*Sulla riva destra del Po, a Torino. Sede di festival dell’Unità.

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