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Airone 18.   |   Amleto  |   Aprire  |  Come può un poeta essere amato?   |  Incamminarci   |  Le fonti dell'inganno  | Rapporti umani  

Airone 18. (21.3.85)

A questo punto, Airone
mi frughi nel ventre
e trovi umida sabbia e
piccole uova di rettile,
il tempo, il poema finisce
in punta di lingua.
Qui in casa dormono tutti, un’ondata
improvvisa mi rigetta sulla spiaggia
a incontrare il tuo becco.

(Finito di scrivere: novembre 1987)

                                                           (Il giardiniere contro il becchino, 1988)

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Amleto, I

detto in parole semplici: è
il padre che ti spinge Ofelia per i piedi
ti tira per i capelli
il padre ti fa navigare via
la madre ti riempie il grembo di fiori appena recisi

ma ci sono ancora molte domande: chi
ha preparato il ruscello gonfio d’acque di specchio
chi spinge le acque degli specchi trasparenti verso
le acque salate del mate, chi
ti accompagnerà nella navigazione in mare aperto
spalancherà i fiori marini, visto che è Primavera
chi riuscirà a penetrarti, infine, prima che il gelo
quando rende impossibile l’atto necessario
ma come la retorica gonfia queste parole, queste domande
come l’amore desiderante rende il discorso infiammato e gelido
come il tuo fiato e il mio si mescolano
come le lingue si intrecciano
e le dita si mettono a correre per conto loro
lungo il percorso necessario dei corpi

Amleto, 3

che cosa significa dunque che il linguaggio tende
ad agghindarsi
che lo scrivente stia in calzamaglia a controllare
un’erezione che non c’è che non ci sarà

la madre vuole essere penetrata e apre, ecco
sul pavimento la sua vulva fiorita
lei hai preparato il momento e tu richiudilo
Ofelia nel pelo della tua mente seppellendoci
il padre sotto il pavimento

e a me stesso, infine:
se hai coraggio l’insemini, fra nove mesi
in questa stessa ora potrai riconoscere, allora
sì fingere sul serio di essere vivo
se un non-nato può nascere.
Nessuno può raggiungere Ofelia
(ancora non mi chiamo: Nessuno)
chi le toglie l’ingombrante verginità la rende
uguale alla madre
il ciclo della riproduzione riprende il suo corso
la specie è salva. 
                                                                       (Passi passaggi, 1980)

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Aprire

I

Dietro la porta nulla, dietro la tenda,
l’impronta impressa sulla parete, sotto,
l’auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda,
un vento che la scuote, sul soffitto nero
una macchia piú oscura, impronta della mano,
alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo,
un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla,
un nodo, la luce, macchia d’inchiostro,
sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia,
sul pavimento gocce di sudore, alzandosi,
la macchia non scompare, dietro la tenda,
la seta nera del fazzoletto, luccica sul soffitto,
la mano si appoggia, il fuoco nella mano,
sulla poltrona un nodo di seta, luccica,
ferita, ora il sangue sulla parete,
la seta del fazzoletto agita una mano.

II

Le calze infila, nere, e sfila, con i denti,
la spaccata, il doppio salto, in un istante, la calzamaglia,
all’indietro, capriola, poi la spaccata, i seni
premono il pavimento, dietro i capelli, dietro la porta,
non c’è, c’è il salto all’indietro, le cuciture,
l’impronta della mano, all’indietro, sul soffitto,
la ruota, delle gambe e delle braccia, di fianco,
dei seni, gli occhi, bianchi, contro il soffitto,
dietro la porta, calze di seta appese, la capriola.

III

Perché la tenda scuote, si è alzato,
il vento, nello spiraglio la luce, il buio,
dietro la tenda c’è, la notte, il giorno,
nei canali le barche, in gruppo, i quieti canali,
navigano, cariche di sabbia, sotto i ponti,
è mattina, il ferro dei passi, remi e motori,
i passi sulla sabbia, il vento sulla sabbia,
le tende sollevano i lembi, perché è notte,
giorno di vento, di pioggia sul mare,
dietro la porta il mare, la tenda si riempie di sabbia,
di calze, di pioggia, appese, sporche di sangue.

IV

La punta, la finestra alta, c’era vento,
si è alzato adagio, stride, in un istante,
ovale, un foro nella parete, con la mano,
in frantumi, l’ovale del vetro, sulle foglie,
è notte, mattina, fitta, densa, chiara,
di sabbia, di diamante, corre sulla spiaggia,
alzato e corso, la mano premuta, a lungo,
fermo, contro il vetro, la fronte, sul,
il vetro sulla mattina, premette, oscura,
la mano affonda, nella terra, nel vetro, nel ventre,
la fronte di vetro, nubi di sabbia,
nella tenda, vetro lacerato, dietro la porta.

V

Ruota delle gambe, la tela sbatte nel vento,
quell’uomo, le gambe aderiscono alla corsa,
la corda si flette, verso il molo, sulla sabbia,
sopra le reti, asciugano, le scarpe di tela,
il molo di cemento, battono la corsa,
non c’è che mare, sempre più oscuro, il cemento,
nella tenda, sfilava le calze con i denti,
la punta, ha premuto un istante, a lungo,
le calze distese sull’acqua, sul ventre.

VI

Di là, stringe la maniglia, verso,
non c’è, né certezza, né uscita, sulla parete,
l’orecchio, poi aprire, un’incerta, non si apre,
risposta, le chiavi tra le dita, il ventre aperto,
la mano sul ventre, trema sulle foglie,
di corsa, sulla sabbia, punta della lama,
il figlio, sotto la scrivania, dorme nella stanza.

VII

Il corpo sullo scoglio, l’occhio cieco, il sole,
il muro, dormiva, il capo sul libro, la notte sul mare,
dietro la finestra gli uccelli, il sole nella tenda,
l’occhio piú oscuro, il taglio nel ventre, sotto l’impronta,
dietro la tenda, la fine, aprire, nel muro,
un foro, ventre disseccato, la porta chiusa,
la porta si apre, si chiude, ventre premuto,
che apre, muro, notte, porta.

                                                                             (I rapporti, 1966)

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Come può un poeta essere amato?

c’è un foro nella tessitura celeste
sopra si chiude una finestra rettangolare bianca
il gelo filtra dai vetri troppo teneri
il legno si scioglie nell’incendio
dentro una melodia che sale
una melodia che scende
piace anche al gatto

16.8.1981

poesia: vasa rotondo, liscio e bianco, chiuso
galleggia sul fiume tumultuoso, scrosciante
ma io prendo un martello pesante, lo lancio
dalla sponda, lo faccio a pezzi, centrato in pieno
in quell’istante e per sempre
sprigiona tutta la sua luce

senza data
                                                                            (Invasioni, 1984)

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Incamminarci

Al giro di boa ancora fiammeggiano le querce,
celebriamo il passaggio dell’anno, del fuoco
quello appena nato non può temere il gelo
tutte le foglie lo trattengono nel calore
fin che possa liberare le ali piumate
ruotare sopra di noi che dormiamo, incamminarci.

25.12.1982 - 8.1.1983
                                                                           (Invasioni, 1984)

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Le fonti dell'inganno

I

Per decidere ho scelto un nome diverso
Per cambiare strada ho chiamato a raccolta i pavoni
Poi si cambia scena e si rotola nel cortile
Si mangiano le noci e si china il capo sul piatto
Avviandosi verso le tende richiuse le dita tra i libri
Allora tutto diventa
le prime falangi disossate dalla gola
di topolini domestici
in ogni altra parte del corpo

29 gennaio 1968

II

costruisci il muro per sorvegliarti
chiudi la finestra
il passaggio delle fessure per liberarti
alzati subito per sederti di nuovo alzati
disperso nella foresta di una cucina infetta

29 gennaío 1968

III

per mozzare la testa ai cagnolini dentro le tane
Entrano le code nelle stanze
Le tende si abbassano si alzano lentamente
Le mani pendono dalle lenzuola alle finestre
se i passi per raggiungere le chiome
se in tre o quattro ti aspettano all’angolo
accucciati accucciatevi dietro il sofà di velluto
Acceso un fiammifero sul luogo
il rigagnolo che ne esce profuma di terriccio
se le impronte aderiscono al petto
tagliano non gridate scendendo sulla schiena
ecco sparire dalla scena ogni oggetto animato
cominciate a parlarle
Né premere

31 gennaio 1968

VI
a Giuseppe Pontiggia

coordinati con le mazze civili
gettate le mani sopra i tappeti di seta
quindi si alza un vento dalle stanze
si abbassa per evitare il riflusso della sete
come significa: no, significa dunque:
non rispondere è infantile rispondere
ti ho chiesto di parlarmi ed ho saputo che non era
non rispondere mai usando un tono simile
seduti a tavola con le mani nel piatto
se la finestra scende sopra le ciglia
ti chiedo di restare sulle ginocchia di marmo
cola una brava azzurra nell’ultima stagione
non  ripetere
allora cucinate l’arrosto di manzo con piselli
allora chiedete di rendere i corpi
allora oltre si vede che oltre si può vedere
una mano che sfiora un piede di porcellana
i baffi dell’amata
stringe le volpi in corsa lungo le braccia
A stretto giro di posta: nessuno

7 febbraio 1968

VII

le zampe premono il letto, no
l’acqua diventa troppo calda,
se la camera rosa si rinchiude in un confetto
i temperini lucenti le dita
se fingono di graffiare graffiano
nel confetto cola il sangue del teatro
dentro il bidé rosa cadono le pietre taglienti
cadono le dita dei piedi
ci hanno impiegato due anni
ma sono riusciti
una giornata di caccia
la coda artificiale infilata nel buco
lingua raspante
angelo

10 febbraio 1968

                                                                           (Cara, 1969)

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Rapporti umani

I

"Niente uccelli sugli alberi," seminando asfissía,
soffocò i passanti, l’asfalto filtrava liquido, "poche
vittime sui prati," tra le rovine spuntavano le squame,
e si aperse, il boia è sceso, un lago tra le gambe;
affilando le lame salutò l’amico e menò colpi, tra gli alberi,
tra i muscoli, sull’occhio, che strappavano, singhiozzando.

Ma anche gli altri fuggivano, battendo a ritmo lento,
tutti tra le colline, tra pesci a grandi pinne,
i denti raccolti in un lenzuolo, li inseguiva, rotolando,
inseguito, tra le pietre, tra le ciglia imbrattate,
calpestando, amico, padre e fratello, raggiunti, seduti
sulla panchina, gracidando, a colpi di becco, l’un l’altro
con affetto, negli ultimi istanti, gli ultimi occhi,
sui prati, con calma, ormai senza fiato, tra le aiuole,
l’insulto, correndo, in cerchio, in fila, in salita, verso
il basso, senza vedersi, senza fine, senza sentirsi, colpendo
con i denti, ma senza odor di sangue, ansimante, ognuno,
felice, se stesso.

IV.

Poiché non c'erano richiami, tra le finestre taglienti,
gli amici vanno e vengono mentendo vivacemente, "ha sposato
una donna assai pelosa," il tempo è al quieto, "tornando
in patria," con la camicia inzuppata, in un luglio di aragoste,
seduto di fronte a lui, tra i capelli incollati, con il
mare infuriato, tra rumori acuti e brevi, ridendo con calma,
al riparo del grande pino, con il cappello tra le mani,
sotto le gocce rigonfie, "non voglio arrossire!," sulla strada
che si solleva, "vuoto verso il suo Fine", avvicinandosi, tra le ciglia,
ingialliti nel tempo, nel fondo degli occhi, indagando.

X.

L’auto aderisce alla curva e il galoppo,
farfalle nelle narici, verso l’estasi,
e in quell’attimo scomparve, gli alberi
sono eterni e ti cancelleranno, piovono
topi bianchi, ed è la fine, 
ma è naturale, senza resistenza,
con una lunga doccia calda, "un ottimo settembre,
perfetto," sfugge dietro le siepi,
ritorno lentamente, "di me non ti ricordi,"
"sí, ti ricordo, ma ti ho dimenticato,"
e preme con la mano, le dita insaponate,
privo di memoria, acutamente parlando, "tra
un paio d’anni, tre, Zagabria è lontana"

XI.

"Della mia vita, in un certo giorno,
non seppi piú nulla, soltanto quello
che rivelò il barbiere domandando dei
miei figli e m’accorsi di non averne mai
saputo, guardandomi bene negli occhi sopra
la schiuma e i riflessi del rasoio.
Uscii e impolverai le scarpe tra le
pietre, e proseguii, le stringhe
slacciate, sulla via di casa, il
gocciolío del sudore: entrando qualcosa
accadde, non ricordo; dietro il portone,
immobile tra i cristalli, l’ostilità di
mia moglie e mi chiesi chi era.
Per togliere la polvere, chinato, si recidevano
le stringhe, la fronte mi sanguinava, tra i
cristalli spezzati, le stringhe tra i capelli,
e premevo, frugando tra le schegge, scrivendo
nella polvere, la lingua mi si tagliava,
lambendo, il sangue colava dagli occhi, sulle tempie,
i figli non sanno nulla..."

XII

Camminare diviene intollerabile, è passato
un altro anno, con i piedi incollati ai pavimenti,
prima o dopo, con le gambe ridotte all’osso,
miele dei muscoli, più che un’antica verità,
rinchiuso nella stanza, non ti sa dire, e poi non c’è.

Sulle strade di ghiaccio, pattinando, con la sciarpa
verde e un berretto scuro, per un complesso di colpe,
breve felicità, non s’incontrano mai, cosí t’infurii,
gratti il muro con l’unghia e te la spezzi, disteso
sulla panchina, anitre imbalsamate galleggiano sul lago,
«mi raccontava una storia» - «sì, ma soltanto la fine».

XV

I due stanno abbracciati, con un mazzo di crisantemi,
bevono alla loro tazza, le unghie nella schiena, la
candela gli brucia le mani, continua a camminare in
ginocchio, tenero pallone, curva del ventre, partorirà
un gatto, sotto la tenda, nuotando nell’ossigeno,
rana piena di latte, scivola lontano e la guardava,
sulla coperta di pelo, muoversi nella piazzetta, le
dita a O, il cagnolino alle calcagna, le impronte

                                                                                        (I rapporti, 1966)

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