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Poesia lineare
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La perfezione della neve
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in un XXX anniversario  

Al mondo

Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po’ più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere.
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.

                             Su, münchhausen.

                                                                      (La beltà, 1968)

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Alto, altro linguaggio, fuori idioma?

Lingue fioriscono affascinano
inselvano e tradiscono in mille
                  aghi di mutismi e sordità
sprofondano e aguzzano in tanti e tantissimi idioti
Lingue tra i cui baratri invano
si crede passare - fioriti, fioriti, in altissimi
                  sapori e odori, ma sono idiozia
Idioma, non altro, è ciò che mi attraversa
in persecuzioni e aneliti h j k ch ch ch
                  idioma
                  è quel gesto ingessato
                  che accumula
                  sere sforbiciate via verso il niente. Ma
pare che da rocks crudelmente franti tra
i denti diamantiferi, in
ebbri liquori vengano gl’idiomi!
Pare, ognuno, residuo di sé, di
io-lingua, ridotto a seduzione!
Ma vedi come - in idioma - corra i più orribili rischi
la stessa nebbia fatata del mondo, stock
di ogni estatico scegliere, di ogni devozione
                  E là mi trascino, all’intraducibile perché
                  fuori-idioma, al qui, al sùbito,
                  al circuito chiuso che pulsa,
                  al grumo, al giro di guizzi in un monitor
Non vi siano idiomi, né traduzioni, ora
                  entro il disperso
                  il multivirato sperperarsi in sé
                  di questo ritornante attacco dell’autunno.
«Attacco», «traduzioni», che dissi? O
altri sinonimi h j k ch ch ch
sempre più nervosamente adatti, in altri idiomi?
Ma che m’interessa ormai degli idiomi?
Ma sì, invece, di qualche
piccola poesia, che non vorrebbe saperne
ma pur vive e muore in essi - di ciò m’interessa
e del foglio di carta
per sempre rapinato dall’oscurità
ventosa di una ValPiave
davvero definitivamente
canadese o australiana
                                        o aldilà.

                                                           (Idioma, 1986)

Si colloca nella catena connessa al termine «idioma».

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Colloquio


Ora il sereno è ritornato le campane
suonano per il vespero ed io le ascolto
con grande dolcezza. Gli ucelli cantano
festosi nel cielo perchè? Tra poco e
primavera i prati meteranno il suo
manto verde, ed io come un fiore ap-
pasito guardo tutte queste meraviglie.

Scritto su un muro in campagna
Per il deluso autunno,
per gli scolorenti
boschi vado apparendo, per la calma
profusa, lungi dal lavoro
e dal sudato male.
Teneramente
sento la dalia e il crisantemo
fruttificanti ovunque sulle spalle
del muschio, sul palpito sommerso
d’acque deboli e dolci.
Improbabile esistere di ora
in ora allinea me e le siepi
all’ultimo tremore
della diletta luna,
vocali foglie emana
l’intimo lume della valle. E tu
in un marzo perpetuo le campane
dei Vesperi, la meraviglia
delle gemme e dei selvosi uccelli
e del languore, nel ripido muro
nella strofe scalfita ansimando m’accenni;
nel muro aperto da piogge e da vermi
il fortunato marzo
mi spieghi tu con umili
lontanissimi errori, a me nel vivo
d’ottobre altrimenti annientato
ad altri affanni attento.

Sola sarai, calce sfinita e segno,
sola sarai fin che duri il letargo
o s’ecciti la vita.

Io come un fiore appassito
guardo tutte queste meraviglie

E marzo quasi verde quasi
meriggio acceso di domenica
marzo senza misteri

inebetì nel muro.

                                                                   (Vocativo, 1957)

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Ecloga VIII

Passaggio per l’informità,
La voce e la sua ombra, Non temere

Persone: a, b

b - Soffia ora settembre nelle lente
giornate, nel
sole largamente speso, libero.
Ora dei fumi
e dei fati d’un tempo più non resta
traccia sul mondo e mai remoto
più da quest’oggi d’anime e d’intenti
giunti a frutto, di filtri e
d’elitre lampeggiante,
mai più remoto fu il timore.
Mai dalla terra
più distratta è la morte e se pur stanche
labbra e stanchi occhi si chiudono
forse in qualche paese
- che non è qui, non qui tra i nostri passi -
è solo per avere
una calma più alta ma contigua
a questa che ci adempie e che ci affama.

a - Eppure scarse e sorde - e non sono
che mesi -, scene
cui m’affido ora tepide eloquenti,
io vi vedevo e nelle vostre
glaciali stanze il pianto
versavo (ogni essere
ogni segno ogni senso attraversato
da una corrente di menzogna: pseudo:
non sogno, falsità).
E voi ricordo, chimici
nomi, angeli, fomenti,
a sostentarmi a indurmi
oltre me stesso ai greti
affannati del sonno. E oltre il sonno la spada
infallibile, l’alba, il novissimo
incredibile sangue mio di ogni alba,
il mio sangue ad aprirmi al peggio, all’alba,
fortissima nell’odio.
E anche la tua mano,
brezza, latte, levamen,
anche la mano tua sento posarsi
dolce e tuttavia piena
sulla mia fronte, come
se destandomi, infante, ecco il vomito
mi lacerava, e un’altra mano
infinitamente digitata
m’aiutava premendo sulla fronte.
Sento la mano tua e il mio morto
sudore, jazz antichi
frondeggiano, fa notte
su grammofoni antichi
metallici,
nulla mi giova, lo so, a nulla giovo,
inficiarmi si tenta, trasgredirmi.

b - E ora tutto questo non è più
che una nota di guasto in fianco al pomo
altissimo, vermiglio,
e ora tutto questo non è più
non più dell’indolente
forma già umana
che tanto
s’impicciolì sotto le zolle vivide
tanto se ne umiliò
che né umana né forma
né - benché scarsa -
sostanza più si crede.
E ora tutto questo non è più
non più di quanto cova
forse nel profondo della valle
e, benché sia meriggio, ingombro in sé
giace, e nei suoi misteri
muscosi. Ma tu
non cadrai, tu fiorirai per sempre
del tuo vero. Esitando e vagando
inabile, cedendo
facendoti
sanie informale, nigredo, liquame,
fimo implorante, fimo
muto, vincesti.

a - Ma io starò, perché tutto l’occhio offrii:
a ciò che arde ogni frode
perché tutto volle arso nella frode.
Ora potrò, cibo, lasciarmi cogliere.
Ora avrò l’invenzione, il movimento,
avrò anche te e l’unico
amore, ora che più non conta nemmeno l’amore,
ti sveglierò
ti guiderò nel sole,
ora che più non conta nemmeno il sole,
perché tutto conosce
maestramente l’arte dell’esistere.
Ora mi sarà inutile
dirti e dire, poi che tutto dice
di te, per me. Ti guiderò nel vuoto
sempre più vuoto e cerulo
che settembre apre
intorno ai cuori, estrema
bellezza cui la prossima
condanna nulla lede, anzi l’avvia
felice e fonda come
un fiume che più non afferra
non cura se non il suo stesso fluire.

                                                                           (IX Ecloghe, 1962)

Nigredo: dall’alchimia

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L’elegia in petèl

Dolce andare elegiando come va in elegia l’autunno,
raccogliersi per bene accogliere in oro radure,
computare il cumulo il sedimento delle catture
anche se da tanto prèdico e predico il mio digiuno.
E qui sto dalla parte del connesso anche se non godo
di alcun sodo o sistema:
il non svischiato, i quasi, dietro:
vengo buttato a ridosso di un formicolio  
di dèi, di un brulichio di sacertà.
Là origini - Mai c’è stata origine.
Ma perché allora in finezza e albore tu situi
la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?
“Mamma e nona te dà ate e cuco e pepi e memela.
Bono ti, ca, co nona. Béi bumba bona. È fet foa e upi”
Nessuno si è qui soffermato - Anzi moltissimi.
Ma ogni presenza è così sua di sé 
e questo spazio così oltrato oltrato... (che)
“Nel                  quando      ║     O saldamente costrutte Alpi
       E il principe                 ║     Le                            “
appare anche lo spezzamento saltano le ossa arrotate:
ma non c’è il latte petèl, qui, non il patibolo,
mi ripeto, qui no; mai stata origine mai disiezione.
Non spezzo nulla se non spezzato ma súbito riattato,
spezzo pochissimo e do imputazione - incollocabili -
a mimesi ironia pietà;
qui terrore: ma ridotto alla sua più modica modalità.
Per quel tic-sì riattato, così verbo-Verbo,
faccio ponte e pontefice minimo su
me e altre minime faglie.
L’assenza degli dèi, sta scritto, ricamato, ci aiuterà
- non ci aiuterà -
tanto l’assenza non è assenza gli dèi non dèi
l’aiuto non è aiuto. E il silenzio sconoscente
pronto a tutto,
questo oltrato questo oltraggio, sempre, ugualmente
(poco riferibile) (restio ai riferimenti)
(anzi il restio, nella sua prontezza):
e il silenzio-spazio, provocatorio, eccolo in diffrazione,
si incupisce frulla di storie storielle, vignette
di cui si stipa quel malnato splendore, mai nato,
trovate pitturanti, paroline-acce a fette e bocconi, pupi,
barzellette freddissime fischi negli orecchi
(vitamina A dosi alte per trattarli
ma non se sono somatismi di base psichica),
e lei silenzio-spazio
e lei allarga le gambe e mostra tutto;
vedo il tesissimo e libertino splendore
e il fascino e il risolino e il fatto brutto
e correre la polizia e - nel vacuum nell’inane
ma raggiante - il desiderio di denaro fresco si fa più ardente
di dominio fresco di ideologia fresca;
anzi vedo a braccetto Hölderlin e Tallémant des Réaux
sovrimpressione         sovrimpressiono
ma pure
ma alla svelta
ma tutto fa brodo
(cerchiamo, bambini, di essere buoni
nel buon calore, le tue brune tettine,
il pretestuarsi per ogni movimento
in ogni momento,
calore non mai tardo nel capire
come credono “certe persone”
anzi astuto come uno di voi
quando imbroglia grilli erbe genitori,
sappiate scrivere ma non leggere, non importa,
iscrivetevi a, per, pretestuarvi all’istante)
ma: non è vero che tutto fa brodo,
ma: e rinascono i ma: ma
Scardanelli faccia la pagina per Tallémant des Réaux,
Scardanelli sia compilato con passi dell’Histoire d’O.
Ta bon ciatu? Ada ciòl e úna e tée e mana papa.
Te bata cheto, te bata: e po mama e nana.

“Una volta ho interrogato la Musa”

                                                                      (Pasque, 1973)

Nello stesso dialetto si dice petèl la lingua vezzeggiativa con cui le mamme si rivolgono ai bambini piccoli, e che vorrebbe coincidere con quella in cui si esprimono se stessi (è l’«Ammensprache» dei linguisti). Il vocabolo copre appunto tutti e due i significati ed ha anche un certo valore dispregiativo. Qui il petèl, prelingua («pappo e dindi»), verrebbe confrontato con la fine della lingua e della poesia, esemplificata con due passi frammentati di Hölderlin, già sulla via dell’ottenebramento (da «Ihr sichergebauten Alpen», e da «Einst hab’ich die Muse gefragt...» tradotto e riportato più sotto: Una volta ho interrogato la Musa). Resta incertamente definito il campo di un’espressione che si sfa e si rifà di continuo, in una mezza via che oggi «non potrebbe» più sussistere: espressione non protetta, come forse sarebbe l’inizio (petèl) e insieme riluttante alla fine. In questo campo medio la fine e l’inizio circoscrivono e incontrano la fioritura di scenette per le quali si è fatto riferimento al già citato Tallemant des Réaux e al mirabile polverio dei suoi «storici» pettegolezzi, come anche alla pornografia paradisiaca e fumettistica dell’Histoire d’O.   L’assenza degli dèi ecc.: altro riferimento a un celebre passo di Hölderlin commentato con alta attenzione da Beda Allemann e da Maurice Blanchot.   il desiderio di denaro fresco si fa più ardente: è (all’incirca) un’espressione dell’economista della «Stampa» Di Fenizio.   non è vero che tutto fa brodo: la canzonetta-slogan pubblicitario. Non vale la pena di tradurre i versi in petèl, i quali si chiudono nella loro presenza di «lingua a due» o di «lingua privata», anche se alcune parole, vicine ai primi suoni emessi da tutti i bambini, al di qua delle lingue, indicano qualcosa di diametralmente opposto, e perduto.   mama e nana (mamma e nanna): possono essere particolarmente significative; principio che si ricongiunge con la fine, come spesso nelle ninnenanne.

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Ipersonetto

VI

(Sonetto notturno con fari e guardone)

Spesso ove mi sommerse il cuor del bosco
o nel mezzo a cesure che verzure
follemente feriscono, nel losco
trarsi a iatture delle mie venture,

là dove tutto che fu mio conosco,
acri sciami di pollini, erbe impure
e purissime al mel siccome al tosco,
ore preste alla sferza in piogge o arsure,

là dove sottopalmo e sottofelce
la fragola rinvenni e dell’accesa
fichina l’umido lieve turgore,

coi fari sfonda il guardone, tra l’elce
e l’orno e il faggio, tra la foglia e il fiore;
deluso fa retromarcia, è in ripresa.

                                                                             (Il Galateo in Bosco, 1978)

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La perfezione della neve

Quante perfezioni, quante
quante totalità. Pungendo aggiunge.
E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
assideramento, attraverso sidera e coelos
assideramenti assimilazioni –
nel perfezionato procederei
più in là del grande abbaglio, del pieno e del vuoto,
ricercherei procedimenti
risaltando, evitando
dubbiose tenebrose; saprei direi.
Ma come ci soffolce, quanta è l’ubertà nivale
come vale: a valle del mattino a valle
a monte della luce plurifonte.
Mi sono messo di mezzo a questo movimento-mancamento radiale
ahi il primo brivido del salire, del capire,
partono in ordine, sfidano: ecco tutto.
E la tua consolazione insolazione e la mia, frutto
di quest’inverno, allenate, alleate,
sui vertici vitrei del sempre, sui margini nevati
del mai-mai-non-lasciai-andare,
e la stella che brucia nel suo riccio
e la castagna tratta dal ghiaccio
e - tutto - e tutto-eros, tutto-lib. libertà nel laccio
nell’abbraccio mi sta: ci sta,
ci sta all’invito, sta nel programma, nella faccenda.
Un sorriso, vero? E la vi(ta) (id-vid)
quella di cui non si può nulla, non ipotizzare,
sulla soglia si fa (accarezzare?).
Evoè lungo i ghiacci e le colture dei colori
e i rassicurati lavori degli ori.
Pronto. A chi parlo? Riallacciare.
E sono pronto, in fase d’immortale,
per uno sketch-idea della neve, per un sua guizzo.
Pronto.
Alla, della perfetta.

«È tutto, potete andare.»

                                                                        (La beltà, 1968)

Assideramento: anche qui è tenuta presente e in parte distorta l’etimologia. «Sideratus», colpito da (maligno) influsso di un astro, è qui accolto in una versione positiva. Così insolazione assume il valore che ha in «zona d’insolazione» (cfr. più avanti in Esautorazioni).  lib.libertà: forse «libido» virata nell’altra parola.  (id-vid): a proposito della vita intesa come ideare-vedere, con radice comune, cfr. ιδ (Fιδ). Possibile anche un richiamo all’Id(Es).

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Profezie di Nino

III

Le profezie di Nino.
(Cosa mi fai scrivere, Nino!)
(E non sappiamo se oggi tutto questo
possa ottenere il permesso per un - benché minima - senso! )
Nino, la più bella profezia
non può mettere boccio che nei clinami di Dolle,
dove tu, duca per diritto divino
e per universa investitura,
frughi gli arcani del tempo e della natura,
e - più conta - dai cieli stessi derivi il tuo vino
ché le tue vigne con lo stellato soltanto
confinano e col folto degli stellanti fagiani.
Tu qui le tempeste e le nevi prevedi del domani
qui il percento di latte e di frumento
qui miseria o signoria.
Ma sempre l’onda delle mele depone
il suo meglio nei tuoi cortili,
quadrifogliati foraggi ti gravano i fienili
e le tue uve e i pampani e i tralci non c’è luce
che in vita li vinca né vento né umore di terra:
off limits la sofisticazione, lo stento!
E - come dall’estro tuo si disserra
il raccolto più atteso, più pagato
di tutta la contrada - quando su per le nude
coste mattutine
cui già dicembre pruinoso prude-ude-ude
(ridondanze, ridondanze su strati su
specchi su inesistenze)
sali pedalando verso il feudo stillante
genio e mirabilità,
tu, tra i settanta e gli ottanta anni pedalando quasi volage,
profetizzi che nelle tue cantine
presto ci trovremo in compagnia - che summit! -
sceltissima e con cento e cento «ombre»
conosceremo sempre più profonde
le profondità del tuo valore
tradizionista a sera all’alba novatore:
questo è lo zenit d’ogni tua profezia.

                                                                                (Pasque, 1973)

Le sole profezie che si possano formulare sono naturalmente quelle del fantasioso agricoltore Nino; le memorie sono piuttosto residui; i giornali murali (tazebao o dazibao, secondo le più correnti trascrizioni): bisognerà pensarci.

Clinami: nel senso lucreziano, in quello di declivio, di clivaggio e di clima...  «ombre»: bicchieri di vino, in veneto

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Stereo

Ancora le se sgionfa le madasse
le gran madasse de aqua
e par che le dae calcossa
da béver e da magnar;
al piof da tuti i canton
sghirli e burli de piova,
che i te ciapa
e po’ i te slapa
co le so slenguazhade,
l’acqua la se ciol tute
le so vece contrade,
i só pos ades i se lata
e po lori i latarà –
sol che a pensarle, ’ste robe,
tu te sent bagnà, stanfà
nubi, nefélai, nèole
parade dai vent
le ne cor drio fin drento ’l nostro gnent

Alza, alza, natura
il tuo stereo, moltiplica i tuoi cupi
cavernosi altoparlanti,
tón e sciantìs
fischi, grattamenti
di microfoni già spenti.
             Su, mettiamoci insieme
             in stereo
             a gridare parole
             estreme

             tipo “Qualis artifex pereo!”.

 




Ancora si gonfiano le matasse/ le gran matasse d’acqua / che sembrano dar qua1cosa / da bere e da mangiare; / piove da tutte le parti / vortici e trottole di pioggia / che ti prendono e ti risucchiano / coi loro colpi di lingua, / l’acqua si riprende tutte le sue vecchie strade / i suoi pozzi ora si allattano / e poi saran loro ad allattare – / solo a pensarle, queste cose / ti senti bagnato, inzuppato / nubi, nubi (gr.) nubi (dial.) / sospinte dai venti / ci rincorron fin dentro il nostro niente.

 





tuoni e saette

 




Nota
quale artefice perisce con me (Nerone?)


                                                                                                                                                  (Sovrimpressioni, 2001)

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Non invenzione (e tanto meno «poesia»): ma semplice trascrizione (ammesso che sia possibile) di un sogno, in cui era compreso anche il commento e probabilmente molto di più della pochezza e casualità che qui ne appare. Aggiunta solo la data



                                                                                                                                                                                 (Pasque, 1973)

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                                                                                                                                                                         (Sovrimpressioni, 2001)

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È un lieve omaggio a una certa «linea ludica» assai viva negli anni recenti. Le carte trevisane sono una variante di quelle più note come napoletane. In maiuscolo sono in parte riportati i motti o massime presenti sotto gli assi di spade, coppe, denari, bastoni. – «I gravissimi Provveditori»: riferimento ancora all’«Oda Rusticale», str. XXXI. – «Dne» è «Domine». – Il  «Barba Zhucón» è protagonista di una fiaba che ricorre con molte varianti nel folclore trevigiano. – «Sàntolo» è «padrino di battesimo o di cresima» (dial.). – «Teodomiro ecc.» è nel marchio di fabbrica delle carte, che si trova nell’asso di denari. – «la vecchia danarosa»: confusi riferimenti ad una storia reale, del secolo scorso. Il Conte venne derubato di un baule-scrigno, da un gruppo di ladri insospettabili («franchi» qui vale «lire» come in generale nei dialetti settentrionali). Si sovrappone, dentro la confusa memoria, anche la misteriosa «mutuante Cian» (che mutuo? che rapporti ebbe con la banda?). – La frase «Gavemo sbalà la vecia» era ancora ripetuta nella mia infanzia come una truce fiaba per far rabbrividire i bambini e anche gli adulti durante le veglie. – «vecchia di spade» è il fante di spade, cioè la morte, la negazione, come nel gioco omonimo. – «Zhisampe»: donne stolte e di malaffare (dial.). – «L’Arcipriore», in realtà l’abate-vescovo Marcantonio protagonista del celebre caso che portò alla contesa tra Paolo V e la Repubblica Veneta (vedi Paolo Sarpi, l’Interdetto, ecc.) nel primo ’600. – «Cupo tambureggiare»: nei racconti tetri e incantati di mia madre e familiari, che erano rimasti nella zona occupata dagli austroungarici, molto vicina al fronte. – «dallo Stevio al Mare»: vedi bollettini bellici.

                                                                                                                                                                 (Il Galateo in Bosco, 1978)

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Il disegno riporta un segnale stradale di svolta pericolosa, con pubblicità di antichissime benzine.

                                                                                                                                                                                  (Idioma, 1986)

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